I giornalisti che, viste le assegnazioni degli Oscar 1953, hanno deciso di considerare Audrey Hepburn una bellezza d’opposizione, riparlando di donna-crisi e aspettandosi da un giorno all’altro che Marilyn Monroe diventi una cara estinta, a noi sembra che abbiano piuttosto esagerato. Il successo che la più magra tra le olandesi divenute celebri ha riscosso e riscuote in campo cinematografico, dipende da un film, Vacanze romane (Roman Holiday), che non è agevole dimenticare parlando dell’attrice. Se si vuol separare il personaggio della trasparente principessa dal contesto e dall’ambiente della sua favoletta « made in Italy », per farne una « diva », si rischia di restare non con una donna ma con un’indicazione di sceneggiatura. Con questo non si vuol dire, intendiamoci, che Audrey Hepburn non sia una brava attrice, e che Vacanze romane sia meno reazionario di quel che sembra. Ma divi e attori sono, quasi sempre, due cose sostanzialmente diverse; e quanto al film: reazionario sì, ma tra i film d’evasione uno dei più abili, non c’è dubbio, da un po’ di tempo in qua.
La vernice neorealista — vespe balere commissariati e Roma Roma Roma — ha dato risultati migliori dei technicolor. Del resto, il film è stato anche scelto per inaugurare l’ultima mostra di Venezia, il che rassicura sulla sua estrema elasticità. È uno di quei tipici prodotti americani che vanno bene per il miliardario del Lido, per la parrocchia e per la domenica dell’impiegato. Da questa fascinosa storia di amore-dovere possono restare intatti molti intellettuali di professione, qualche iscritto al pci, qualche universitario e qualche borghese felice felice di sua moglie. Il resto della società italiana di oggi in Vacanze romane trova abbondantemente di che rimpiangere, o sperare, o — la maggioranza — inutilmente compiacersi. Che Audrey Hepburn, nelle due ore in cui il film ha modo di concludersi, possa blandire desideri insoddisfatti del pubblico, domato dai massicci della Paramount, siamo sicuri.
Ma la prova dei personaggi, dei « divi » e di tutte le finzioni, non è il breve incontro, ma la sera a tavola, il pomeriggio in tram, la mattina in ufficio. Ci par chiaro che da questo punto di vista Gina, Mangano e Pampanini sono, secondo il detto « più di compagnia » della sofisticata Audrey: anche perché questo non è tempo di commedia, in particolare della commedia passatista e sentimentale di cui Vacanze romane è il penultimo scaltro esemplare e la Hepburn la fatina d’occasione.
Per fare di una donna una diva ci vuole prima la donna e poi un piccolo ma sostanzioso gruppo sociale che la battezzi. Ora, Audrey Hepburn è carina e simpatica, recita Gigi e Ondine a Broadway, fa le bizze col fidanzato e deve avere delle complicazioni. Però ci piacerebbe andare in scooter con lei. Danièle Delorme, per esempio, è una cosa diversa: anche lei ha fatto Gigi, ha fatto anche Mara di Pratolini. La Hepburn potrebbe benissimo recitare Mara perché adesso non ci interessa, ma Mara umanamente parlando come Danièle Delorme non lo sarebbe mai.
E quanto al piccolo ma sostanzioso gruppo sociale: i proletari si voltano, come tutti gli italiani, alla prima Lollobrigida che passa, e fortunati loro se è quella vera.
I ricchi scassano le automobili e, se presiedono importanti associazioni, scrivono lettere ai sindaci angelici, citando i comandamenti.
Restano i borghesi, eterni padrini delle illusioni terrene, ma ormai non ce la fanno più. Hanno inventato Greta e Joan Crawford, la bionda Harlow e la strabica Shearer e mille altre; pochi sono arrivati a Rita Hayworth, però col fiato rotto.
Adesso stanno seduti, a vedere McCarthy che da un fazzoletto rosso tira fuori Marilyn Monroe vestita a stelle e strisce e pronta per la Corea. Alla nostra Audrey Hepburn rimane la malinconia.
G. P. Dell’Acqua
(Cinema Nuovo, Milano 15 maggio 1954 – testo archivio in penombra)