Mercoledì scorso, 26 maggio, i giornali riferivano che, a Torino, nel camerino di un teatro, colpito da sincope immediatamente dopo lo spettacolo, era morto Giorgio De Rege. Aveva recitato in una rivista di Ripp e Bel ami. Niente nel suo atteggiamento che destasse preoccupazione. Giorgio De Rege, hanno precisato i cronisti, « stava benissimo ». Chiamato insistentemente dal pubblico esilarato alle sue filastrocche, egli era stato anche costretto a narrare qualche nuova facezia. Aveva ringraziato, levando gli sguardi assonati e torbidi sulla barriera del celebre naso di cartone; quindi, era rientrato nel camerino, per togliersi il trucco. Ma quella sera non potè, come di consueto, gettare la maschera. Lo aneurisma in agguato lo fulminò, davanti allo specchio: lo specchio del camerino, intriso di tante malinconie, e nel cui fondo remoto si celano antiche pene, dormono sogni e nostalgie. I compagni di lavoro, più tardi, trovarono Giorgio De Rege accasciato sulla sedia, addormentato per sempre. Era inutile, ormai, scuoterlo, avvisarlo del pericolo di perdere l’ultimo tram. Giorgio, ormai, non avrebbe più viaggiato in tram, e nemmeno in automobile o in treno o in aeroplano. D’ora in poi solamente sulle ali bianche dell’infinito, aggrappato ai lembi delle nuvole, nella fluttuante lettiga dei sogni. Ed egli, certamente, aveva fretta di arrivare alla mèta. Da tre anni e più suo fratello Guido, « il genovese », lo aspettava.
Martedì sera, 25 maggio 1948, la vita postuma di Giorgio De Rege ebbe termine. Vita « postuma », perché, in realtà, egli era morto insieme col fratello Guido, nei primi mesi del ’45. Chiunque, in questi tre anni randagi e tristi, lo aveva riveduto, sul palcoscenico, era rimasto colpito dalla solitudine dello « scemo » col naso di cartone. E nessuno, invero, riusciva a pensare a un solo De Rege. E come sembrava illogico, ingiusto, innaturale quell’articolo il preposto al cognome De Rege. Perché non era concepibile che la coppia si sciogliesse. Perché Guido, il primo scomparso, non era la « spalla » del fratello. Non era il provocatore occasionale; e nemmeno l’assillante stuzzicatore. Era l’altra parte di Giorgio, il complemento, l’animatore. Era lo specchio nel quale la vita si rifletteva egli occhi dell’avvinazzato col naso da carnevale. Era in « pubblico » sul cui labbro il balbuziente coglieva i soli barlumi e motivi capaci di aprire uno spiraglio nella sua pigra e nebulosa fantasia. Il mondo e ogni altra esperienza non esistevano all’infuori della costante irascibilità, dei vani richiami, degli stessi sorrisi dell’altro.
Avevo visto i De Rege, la prima volta, intorno al 1936, in una rivista all’Eliseo con la Magnani, mi pare, e Pina Renzi. Imparai ad amare quei due comici, la cui maschera, i cui accenti, le cui trovate esulavano completamente dalla satira e dalla metafisica. Non si trattava, a prima vista, che di uno scemo senza orientamenti « morali » e intellettuali. E ciononostante il naso finto e il cappello duro non si esauriva nella macchietta. Il duo De Rege, invece, era la sintesi di tanti tipi e macchiette non bene identificati, e che difficilmente avrebbero trovato posto in una determinata categoria sociale; e di tanto lo stesso linguaggio di Giorgio — una specie di esperanto dei dialetti — era la più efficace, la più buffa espressione. Mi piaceva, per così dire, quel bilancio che, una volta sul palcoscenico, essi facevano della loro attività nello spazio della giornata. S’indovinava subito ciò che era accaduto prima, soprattutto le disavventure che il dinamismo dell’uno e il torpore dell’altro avevano inevitabilmente causato. Bastava che uno dei due facesse un semplice cenno, una vaga allusione. Tutti, intorno, si accorgevano dell’equivoco, solamente loro non capivano niente: perché i pensieri nella loro mente erano tardi e confusi. Ma, al momento opportuno, si poteva esser certi che anch’essi avrebbero avuto le loro « illuminazioni »; e si sa come siano spietate, a volte, le risorse degli scemi consapevoli della loro propria inferiorità, le vendette degli umili costretti a sopportare le prepotenze degli altri.
Tre anni fa, con la morte di Guido, il duo era finito. Per tre anni, il superstite ha cercato di calcare, distratto e sbandato, le strade del mondo; invano, invano egli cercò di « rifarsi » una vita. Egli sapeva, più d’ogni altro, che la parte migliore di se stesso giaceva sottoterra. Ora Giorgio ha raggiunto Guido. Non a caso — forse — i compagni lo hanno trovato che « dormiva » nel camerino, ancora truccato. Lo specchio, dal fondo gremito di sogni e di nostalgie senza fine e senza nome, rifletteva, verso il cielo, il celebre naso da avvinazzato.
Vincenzo Talarico
(Fotogrammi, Roma, 1 Giugno 1948 – testo archivio in penombra)