Vercelli, giugno
Gli attori di Riso amaro hanno rivoluzionato il nécessaire del trucco. Accanto al cerone Factor, agli sfumini, ai rossetti e alle matite nere, tengono un modesto scatolino, di solito un vecchio recipiente Viset usato, contrassegnato da una etichetta disadorna: « Repellente ». L’ha riempito un farmacista di Vercelli, impiegando la più sicura delle sue ricette; dice che basterebbe spalmarla sulla pelle per esortare le zanzare a scegliere un altro posto di ristoro. Ma l’esortazione è vana, e le anofele perforano il denso strato di crema aspra e scostante per infliggere agli attori sofferenze più intense del caldo e della sete. Quando, superati da Vercelli i quattordici chilometri di strada provinciale, abbiamo raggiunto Veneria di Lignana, non saremmo riusciti a distinguere « la gente del cinema » dagli autentici agricoltori se non in virtù di un po’ di cerone sul volto e dagli abiti capziosamente agresti. Per il resto, le morsicature sulle gambe confondevano l’attrice Lia Corelli con la capo-mondine di Marzabotto, mentre Nico Pepe — incaricato di guidarci — indossava una trasandatissima tenuta da contadino, negligendo quel prestigioso cappello rigido a falde alzate che portava a Milano all’epoca delle sue recite teatrali. Nessuna troupe cinematografica forse è mai stata costretta a sopportare di colpo dei grandi disagi, come quella di Riso amaro. La Lux, prevedendo il peggio, aveva aggiunto una clausola al contratto; gli attori e i tecnici, firmando, si sentivano impegnati a tollerare per tre mesi le scomodità di quel villaggio sperduto fra le risaie. Infatti « esterni » ed « interni » vengono tutti realizzati a Veneria, nei pressi e nei locali della tenuta IFI, di proprietà della Fiat. In una fila di casette a un solo piano, stanno le abitazioni degli attori, gli uffici della produzione, i laboratori tecnici e persino un cinematografo per mostrare alla troupe i brani di pellicola impressionati. Nel salone dove le mondine, gli anni scorsi, andavano a ballare, si trova oggi la mensa. Nel rudimentale “Mocambo” siamo entrati appunto all’ora della colazione, in tempo per vedere il regista Giuseppe De Santis seduto al tavolo di fondo, accanto al produttore Dino De Laurentiis e al fratello Luigi. De Santis costituisce oggi, pur con un solo film al suo attivo (Caccia tragica) uno dei nomi sui quali la Lux Film e il nostro cinema puntano maggiormente.
Egli si giova di tre assistenti, ai quali è legato da buona amicizia, intendiamo Gianni Puccini, Basilio Franchina e Nelli; e non rinuncia a Otello Martelli, il suo operatore di fiducia, proprietario di ventiquattro camicie a scacchi. Ma nella scelta degli interpreti segue un criterio molto personale: la protagonista, Silvana Mangano, non aveva mai visto prima del ventiquattro maggio una macchina da presa — era Miss Roma 1946 e basta (1) —; Raffaelle Vallone, la cui rassomiglianza con Burt Lancaster è tutta a favor suo, era giornalista in un quotidiano dopo aver giocato per anni nella squadra del Torino. Per quanto riguarda Gassman, la scelta di De Santis è caduta senza esitazioni. Gli occorreva un giovane altissimo, capace di essere « carogna » e contemporaneamente di piacere alle donne. La figura che il protagonista di Daniele Cortis dovrà impersonare in Riso amaro si muove fra Torino e le risaie. Walter — è il nome del suo personaggio — inganna una buona ragazza, Silvana (interpretata dalla Mangano), costringendola ad abbandonare un sergente (Raffaelle Vallone), mentre altre figure si muovono, dalla donna elegante a Francesca, ai tre « caporali », sporche figure di ingaggiatori mondariso esortati poi al furto dal vilain Walter. La macchina da presa scruta le abitazioni, il posto di lavoro e il sistema di queste donne obbligate a frugare fra l’acqua per estirpare le erbacce che soffocano il riso, chine tutto il giorno sotto il sole come i tanto compatiti coolies della Cina. È la prima volta che si realizza un film a soggetto con questo argomento alla base. Finora avevamo visto solo qualche inutile e noioso documentario, girato da operatori preoccupati più di cogliere belle fotografie nel gusto della Fotocelere che di offrire allo spettatore un sicuro indice dei disaggi della vita in risaia.
Con tutto ciò, forse le uniche persone non entusiaste della iniziativa della Lux sono le mondine stesse. Occorrevano a De Santis cinquecento comparse per la scena iniziale, e un incaricato della produzione salì nella camerata delle mondine di Vicenza. « Aspetti; vado a vedere che cose ne pensano le ragazze » disse la più anziana dopo aver sentito le proposte dell’uomo. Di lì a poco, essa tornò con sedici ragazze inferocite: « Per chi ci avete preso? Siamo donne per bene noi ». Questo è il frutto della ingiusta fama che le dive godono nella provincia italiana. Ma poi il regista riuscì ad ottenere almeno duecento donne e si sentì sicuro per la carrellata d’inizio. La gru, che sostiene la macchina da presa, stava in mezzo ai campi. Un parasolino colorato indicava la sua presenza anche a distanza di chilometri. Sugli argini sostavano le donne pronte ad entrare in acqua ad un cenno del regista, e mescolate a loro notammo Dedi Ristori (« ha ballato in Apocalisse » ci spiegò il premuroso Pepe, e noi fingemmo ammirazione), la dimagrita e inspiegabile Lia Corelli, Anna Maestri (titolare di una sconcertante « non-avvenenza » cui il cinema spesso dovrà rivolgersi) mentre sopraggiungevano Maria Grazia Francia e Maria Emma Bardi, nuovi acquisti della Lux e presumibilmente buoni. Sulle rive di un fosso, Checco Rissone urlava qualcosa a Adriana Sivieri e a Isabella, sedute fuori campo sulle sedia a sdraio, e Antonio Nediani, una scoperta di De Santis in Caccia tragica, evitava di guardare i visitatori, pieno di vergogna per via della testa rapata a zero. Ad ogni prova, appariva chiara la differenza fra le attrici e le mondine. Mentre queste entravano sicure nella melma, le divette — obbligate con efficacia da Anna Gobbi — brancolavano come donne sul filo d’equilibrio, più simili a bellezze balneari che a ragazze della risaia. (Ma per poco). Comunque, quando il sole fu basso all’orizzonte (il che avrebbe dato una plausibile idea dell’alba agli spettatori) e De Santis ordinò di caricare la macchina con la pellicola impressionabile, le mondine indisciplinate incominciarono ad andarsene. Abbiamo sete — dissero alcune. Dobbiamo andare a ballare — osservarono altre. Con poche donne rimaste in scena, De Santis giustamente rifiutò di dare il via all’operatore. L’indomani, con maggior forza di persuasione, avrebbe indotto le improvvisate comparse a resistere un’ora di più e la scena sarebbe stata finalmente girata.
Stizzito fece riabbassare il carrello gru, e raggiunse nella « via dei Divi » la sua abitazione, dove Checco Rissone poco dopo entrò con la siringa e le iniezioni endovenose ricostituenti. Da un’altra camera, dov’era stata rinchiusa tutto il giorno uscì l’attrice americana Doris Dowling. Il lei riconoscemmo quella prostituta che in Giorni perduti fa la corte a Ray Milland nel bar, e poi in camicia da notte gli presta i soldi sul pianerottolo. Quando De Santis la notò a Roma alcuni mesi fa e le offrì la parte di Francesca per Riso amaro, la Dowling accettò subito. « Sono certa che sarà un film molto importante » essa ci ha spiegato in un italiano sufficientemente spedito, mentre nel salone della mensa entrava l’esordiente Silvana Mangano. La fama di « Rita Hayworth italiana » che le hanno creato in seguito ad alcune fotografie sbilenche, diciamolo pure, è ingiusta. La Mangano non ha nulla di felino, e le sue proporzioni sono — per quanto ammirevoli — molto normali. Tutti, a Veneria, sono d’accordo nel riconoscerle una insolita saggezza; anzi, essa stupisce proprio perché non s’è « montata la testa ».
La vita a Veneria? La sera, chi non va a Vercelli si rifugia nella lettura, o assiste alle proiezioni del salone. Gassman studia versi nella sua cameretta, arredata come le altre: un letto da mondina con telato rigido, coperte in dotazione col sistema militare e acqua scarsa scarsa. Nico Pepe batte sui tasti della sua portatile un articolo di teatro oppure redige con Rissone Amaro riso di Riso amaro, il giornale murale della troupe. Nediani sostituisce il suo spruzzatore del DDT con quello intatto di un amico senza avvertirlo, e le cinque attrici dei ruoli secondari, scrivono lettere a Roma, vantando atti stoici e isolamenti da esploratori africani. Chi invece preferisce raggiungere Vercelli per poche ore, rispetta un itinerario inderogabile: bar Marchesi per inghiottire un caffè, il negozio di fronte al bar per acquistare il DDT, e infine una camera dell’albergo Savoia, con bagno, per preparare il corpo — dopo una doccia — a ricevere un nuovo e densissimo strato di « repellente ».
Aldo Glauri
(Bis, 29 giugno 1948 – immagine e testo archivio in penombra)
(1). Silvana aveva debuttato nel cinema due anni prima.