Gennaio 1946
Siete convinti che i film americani non sono poi la Terra Promessa? Vorrei che ogni spettatore rispondesse sinceramente a questa domanda, prescindendo dalla qualità tecniche, indubbiamente superiori alle nostre e che rendono apparentemente tanto piacevoli i film americani. E allora, come si spiega il loro successo commerciale? In tanti modi: prima di tutto sono generalmente più divertenti dei brutti film italiani o degli orribili film tedeschi che siamo stati costretti a sorbire durante gli anni di clausura; eppoi, l’inverno scorso, tra coprifuoco e allarmi, chi riusciva ad andare al cinema? Ora la gente vuol rifarsi.
Siete convinti che, se non altro per certe scene di Roma città aperta o di Due lettere anonime, anche il cinema italiano ha qualcosa da dire e buone carte da giocare? Rispondete sinceramente. Se è vero, dobbiamo ammettere che il nostro cinema non incontrava da anni un momento favorevole come questo per uscire dal suo letargo.
Quello che dicono i critici, che i migliori film americani non sono ancora arrivati, in parte è vero. Ma quando li avremo visti, ci accorgeremo che questi capolavori ammontano in tutto, nella produzione americana di quattro o cinque anni, a qualche decina, nella migliore delle ipotesi e che — fatto ancora più significativo — essi sono tutti dovuti a quei tre o quattro grandi registi ai quali, da ormai quasi vent’anni, è esclusivamente affidato l’incarico di tener alto il buon nome del cinema americano. La produzione dozzinale, intanto, quella che ci viene servita in questi mesi di magra. ripete fino al parossismo gli stessi temi convenzionali, gli stessi personaggi di un mondo inverosimile, gli stessi volti stereotipati di attori e attrici (perché se anche i loro nomi cambiano, una “stella” assomiglia all’altra), la stessa prudenza indegna di chi possiede una “una macchina per fare i sogni” tanto perfetta.
Il cinema italiano non ritroverà una occasione come questa. Visse sfiduciato in periodo fascista, gonfiato dall’autarchia, senza possibilità di valido paragone; un giorno o l’altro — si diceva — sarebbe “finita la pacchia”. Certo, la “pacchia” è finita; gli americani bene o male, fanno sul serio; se vogliamo metterci in lizza dobbiamo fare altrettanto sul serio.
La buona volontà che ha indubbiamente animato Rossellini e Camerini non basta per fare dei capolavori. I produttori, dal canto loro, non sembrano molto compresi dell’importanza del momento: prediligono vecchi temi e vecchi registi che potrebbero benissimo mandare in pensione. Gli esercenti non hanno occhi e orecchie che per i film americani.
Ma tutti questi svantaggi dovrebbero essere compensati dalla scomparsa tra noi di quel complesso di inferiorità che il cinema fascista con tutta la sua boria aveva inculcato nei più seri dei nostri registi, sceneggiatori, operatori, scenografi, attori. Lavoravano in fretta e svogliatamente, conviti di essere battuti in partenza.
Vogliamo metterci a fare sul serio? Le buone intenzioni è ora che si mutino in fatti.
Luigi Comencini
(immagine e testo archivio in penombra)