Domenica 28 febbraio 1965 nelle chiese italiane è stato letto il messaggio dei vescovi sulla situazione morale del cinema italiano. Questo intervento autorevole e perentorio suggella tutti gli altri scaturiti direttamente dalla pubblica opinione (dobbiamo riconoscere a Nicola Adelfi il merito di avere puntualizzato per primo il problema su « La Stampa »). Soltanto il Ministero dello Spettacolo, ch’io sappia, non ha fatto conoscere un suo chiaro pensiero in proposito. Il cinema italiano comunque è sotto accusa — non è la prima volta e non sarà l’ultima; ma è la prima volta che la difesa diventa difficile. Una premessa: spiace che tutti gli interventi si risolvano, implicitamente o esplicitamente in una richiesta di intervento del pubblico potere. La parziale liberazione del cinema italiano dalla censura preventiva è una conquista alla quale non è possibile rinunciare, non è giusto rinunciare, non è soprattutto utile. Il discorso quindi, a nostro avviso, deve partire di qui: da una autocritica svolta al cospetto della libertà, caso mai umiliata o tradita.
II documento dei vescovi è importante. perché in testa alla lista dei responsabili mette il pubblico. Seguono poi, com’è inevitabile, autori produttori attori critici. Ma s’intende bene che la società italiana è chiamata a una responsabilità primaria. Per la prima volta. Ed è importante che lo si intenda, perché la verità sta qui.
Non so se gli estensori del documento episcopale abbiano avuto dinanzi le statistiche complete e dettagliate dell’andamento commerciale del cinema italiano sul mercato interno. Dico dettagliate, perché i consuntivi mentono. È frequente che in testa alle classifiche di incasso appaiono film di qualche dignità. È una indicazione ingannevole. Bisogna scendere ai posti mediani della classifica generale, bisogna soprattutto scendere in quella zona dell’esercizio che in gergo si chiama « profondità », cioè locali di seconda o terza visione, locali della provincia italiana, per rendersi conto della pressione negativa che il pubblico esercita sulla produzione cinematografica. In termini meno specialistici dirò che da alcuni anni la richiesta del film peggiore (non soltanto da un punto di vista morale, ma anche intellettuale, anzi soprattutto intellettuale), è vertiginosamente cresciuta giorno per giorno da parte del pubblico. La grande crisi del ’63 è stata superata, almeno in parte, nel momento in cui la produzione si è modellata sugli schemi di una crisi generale della società italiana. L’Anica potrebbe fornire i nomi dei produttori salvati dal fallimento letteralmente dal film a episodi. Il quale film a episodi non è che la variante scaltra e mistificata del vecchio « film sexy » (la fortuna dei film « sexy » ovvero « di notte », finti documentari di viaggio, è sempre stata limitata: il pubblico se ne vergognava, pur apprezzandoli segretamente; il « film a episodi », trasferendo i medesimi elementi in un rozzo canovaccio narrativo, ha fornito l’alibi).
È difficile dunque valutare rettamente la responsabilità di una industria posta davanti a una alternativa così drammatica. In altre parole, il grado di eroismo che si richiede alla classe imprenditoriale cinematografica esiste raramente in natura. C’è chi pensa, come il sottoscritto, che una crisi più profonda sarebbe stata forse più salutare di questa mezza salvezza. Ma lo pensa a posteriori, a cose avvenute. E dicendo « avvenute » intende una situazione dalla quale è molto difficile tornare indietro.
Le prove? Chiunque se le può procurare, per esempio alla Siae. Appena un paio di domeniche fa, in una grande città del nord, che si reputa evoluta, un filmetto realizzato con scarti di vecchi motivi ha incassato, il primo giorno in un solo locale, un milione e mezzo. In quella stessa città, un film di Bergman non arriva alle 200 mila lire. Non è che il produttore di quel filmetto sia felice di averlo realizzato; è che un film diverso egli potrebbe realizzarlo soltanto rischiando la vendita dei mobili dell’ufficio.
Il discorso è terribilmente complesso. Parte per esempio dai costi troppo alti per garantire una probabilità ragionevole di profitti (talché il minimo rischio è precluso) per arrivare alla politica cinematografica dei vari governi, dell’Anica, dell’Unione produttori.
Il cinema italiano degli anni cinquanta apriva un dibattito al quale il pubblico era richiamato a partecipare passionalmente. Possono esservi state ottime ragioni per chiudere quel dibattito. Ma la medicina ha ucciso il malato. Il pubblico è stato abituato a «non pensare », a «non partecipare ». E non chiedeva di meglio, la società italiana post-miracolo, feticistica e incolta, affascinata prima dagli oggetti del benessere e torturata poi dal terrore di perderli.
Questo è il punto fondamentale del discorso. Mia opinione personale è che la società italiana dalla quale il cinema scaturisce (mettiamo pur dentro tutto, pubblico e produttori, autori e critici) più che moralmente deteriorata lo sia intellettualmente. In altre parole, i fenomeni di cui ci lamentiamo sono essenzialmente una manifestazione di incultura. Nella scelta che il pubblico opera è determinante il « rifiuto delle idee ». È una scelta passiva, non attiva. Più che scegliere, il pubblico scarta. Il cattivo film prospera perché il buon film è scacciato dal mercato, è improduttivo, è irrealizzabile. L’Italia è ancora un paese ricco di eccellenti padri di famiglia, la maggior parte dei quali è disgraziatamente troppo ignorante per scegliere bene, la domenica pomeriggio, tra il film che si annuncia « brillante » e quello che si teme « difficile », problematico. La grande maggioranza degli italiani sceglie il film pornografico non perché sia tale, ma perché la pornografia è la sostituzione più facile e più mistificata delle idee.
Tutto ciò non esclude ovviamente la responsabilità di tutti i signori nominati nel messaggio episcopale. Il parlare di eroismo, in queste situazioni, ha sempre un suono ironico e amaro. (La povertà del produttori va comunque valutata in rapporto a una ricchezza perduta a metà). Escluderei piuttosto in massima parte, la responsabilità degli autori. Almeno in questo senso: qualsiasi siano le loro colpe (la debolezza della carne è probabilmente la maggiore), essi le scontano facendo con grande pena e perfino disgusto ciò che il pubblico chiede. In molti registi e scrittori la rassegnazione a un certo stato di cose non è che un modo di spegnere una disperazione autentica. Tanto più che l’artista, specialmente oggi, non si disgiunge mai totalmente dalla società in cui vive ed è incline a una dolorosa complicità.
I rimedi. Ce n’è uno solo, molto semplice ma disgraziatamente molto lento: diffondere la cultura. Il buon teatro, la buona letteratura, la buona televisione. Favorite questo e cercate di riabituare a poco poco il pubblico a tollerare il pensiero. La stessa, cultura cinematografica è, nel nostro paese, in condizioni di vergognoso abbandono. Il Museo del cinema di Torino, che apre al pubblico opere di cineteca, è una rarità. La stessa capitale del cinema, Roma, non ha una vera cineteca aperta al pubblico (chi se le vede le migliaia di copie di film che per legge sono depositate presso il Centro Sperimentale?). La cineteca di Milano langue per mancanza di denaro. Il resto è deserto.
Vittorio Bonicelli
(testo archivio in penombra)