Screditato giocattolo

Cosa dobbiamo fare del cinema? Meglio, cosa possiamo fare per il cinema? Perché tutti vi
siete accorti che il cinema è in crisi, che il cinema si lascia andare, è diventato pigro, seguita a battere lo stesso chiodo. Vi furono anni — e furono quelli gloriosi — in cui il cinematografo era una testa pensante, o agiva come tale: inquieto, curioso, preoccupato. Anni in cui la parte più pensante del cinematografo, che è il regista, adoperava la macchina da presa come un mezzo per esprimere, faceva dell’occhio dell’obbiettivo il proprio occhio, e con quello frugava nella vita in cerca di immagini, buttava la luce sugli uomini e sui loro visibili segreti, in modo che il cinema fu veramente un modo di esplorare, di offrire al mondo qualcosa in cui tutti potessero riconoscersi: perché mai nessun’arte prima di allora era riuscita a rappresentare la vita in un modo così aperto e sensibile, così chiaro e evidente. Ai più semplici fu aperta una segreta felicità, perché le immagini hanno un loro immediato e persuasivo linguaggio, assai più immediato che non la musica e le parole. L’intelligenza visiva, il potere di stabilire relazioni di immagini, è la più diretta forma di intelligenza, educa alla conoscenza, e mette sulla strada della cultura e dell’arte. Mette su quella strada in modo insensibile, semplicemente insegnando a guardare e ad amare gli aspetti delle cose, le donne e gli uomini, la vita in movimento. Stimola lo spirito d’osservazione, informa sulle condizioni delle diverse parti della famiglia umana, abbatte barriere e pregiudizi, dice le cose col loro nome, che è quello del loro aspetto, fa, in parole povere, opera di autentica educazione. A quest’opera di conoscenza, di divulgazione, di cultura, a questo modo di manifestare universale e piacevole, il cinema avrebbe dovuto dedicarsi, seguitando quella esplorazione del mondo in tutti i suoi aspetti, avvicinando gli uomini in questo piacere di conoscere e di conoscersi, che, quando è sincero e mosso da umana preoccupazione, si chiama arte.

A questo, che era il solo modo possibile di comunicare attraverso il cinematografo, e che avrebbe dovuto diffondersi come una accesa e sempre diversa curiosità, e, attraverso quel continuo e fervido modo di frequentarsi, rendere gli uomini amici e solidali — a questo modo, dicevo, successe un altro modo, quando la prepotenza degli avventurieri si impadronì del mezzo. Il cinema improvvisamente decadde, perché finì di appartenere a uno solo per appartenere a tutti. Responsabile non fu più l’artista, ma il padrone della ditta. I compiti furono divisi, e ciascuno svolse la sua parte, spesso con scrupolo e serietà, ma quasi mai in modo che la collaborazione rendesse possibile lo svolgimento di una ispirazione continua. Oggi non esiste più, si può dire, un film che si possa considerare riuscito. Si parte, ma non si sa come si arriva. Diremo a questo proposito che il fiasco commerciale è qualche volta un indice di qualità. Perché ormai il cinema è congegnato in modo che le difficoltà più grandi incontrate da un artista che vi metta le mani, consistono nell’eludere la formula, cioè nello sfuggire a tutti i piccoli luoghi comuni dettati da una esperienza « statistica » del successo. Uscire dalla formula non vuol dire ancora, naturalmente, fare del buon cinema. Tra cinema-commercio e cinema-arte, esiste una terra di nessuno con limiti male definiti, nella quale ci si può avventurare a patto di conoscere l’altra sponda, di sapere dove si vuol arrivare. Perché non basta abbandonare gli espedienti cattivanti, i surrogati di Amore-Morte coi quali il produttore, lanciandoli a guisa di grappini d’arrembaggio, è solito abbordare il pubblico. Ma bisogna trovare gli equivalenti. Abbandonare la strada battuta, se non se ne trova una migliore, vuol dire perdersi del tutto. Fare del nuovo non significa nulla, se non è un modo diverso di affrontare la vita, se quel nuovo non è fatto di sincerità e di entusiasmo. Succede spesso a uomini anche molto intelligenti, a veri «artisti » entrati nel cinematografo, che l’esercizio del mestiere, l’abitudine tecnica, la grossa fatica di coordinare e di dirigere, di vincere le resistenze, di rispettare il piano di lavorazione, li costringono ad abbandonare il generale per il particolare, a fare semplicemente « pulito », a sostituire la prudenza al coraggio. Si muovono in un cielo affollato, nel quale non è più riconoscibile la stella polare, e diventano allora semplicemente degli esecutori, dei bravi operai. Mentre la bontà della collaborazione, che è il maggior vanto della industria americana, avrebbe dovuto offrir loro la possibilità di essere liberi e soli come è lo scrittore davanti al foglio di carta.
A questa libertà arrivarono i grandi registi quando il cinema era una cosa loro. A questa libertà devono tornare oggi, se non vogliamo che il cinema diventi uno screditato giocattolo.

Dino Risi

Firenze, Agosto 1946

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