Un film che indica molti nostri errori e colpe

Non ce ne voglia il regista Zampa, che ha fatto un lavoro onesto e serio, se parlando di Anni difficili insistiamo nel chiamarlo il film di Brancati: il soggetto è stato tratto infatti dal suo libro Il vecchio con gli stivali ed a Brancati ed Amidei si deve la sceneggiatura. Vi sono poi tanti nomi di collaboratori attori, produttori ed attori: ma questo è e resterà il film di Vitaliano Brancati, della sua personalità e dei problemi e limiti della sua narrativa. Può darsi, ripeto, che constatando come i fotogrammi di una pellicola abbiano una risonanza sociale tanto più ampia di quanto non abbiano le pagine d’un libro, anche se diffuso in più edizioni, Brancati stesso abbia avvertito la sensazione di sgomento che durante la proiezione e più ancora alla fine, non appena si cominciò a balbettare qualche confuso commento, si leggeva, sui volti atterriti di tutti gli spettatori.

Il film Anni difficili racconta le vicende d’un impiegato siciliano durante ii fascismo e fino alla « liberazione »; impiegato antifascista, che prende la tessera per non perdere l’impiego, sotto le pressioni della moglie: prima di compiere il grande passo l’impiegato Piscitello si reca alla farmacia della cittadina dove si riuniscono gli antifascisti, o meglio i ruderi di un sistema democratico fallito. Nessuno osa dirgli no o sì; tutti preferiscono trincerarsi dietro una dialettica allusiva ed inconcludente; sono davvero i ruderi d’un mondo morto, incapaci di odiare, incapaci di coraggio civile, terrorizzati da un ceffo che si affaccia sovente ad ascoltare quel che dicono, una spia del federale fascista, che tutti, per altro, salutano con cerimoniosa cordialità. E la vita di Piscitello diviene proprio quella d’un impiegato italiano iscritto al gruppo rionale: prima la camicia nera, poi la divisa con gli stivali, e le adunate e i gagliardetti e la pazzia di tutti che lo perseguita fin tra le mura della sua casa dove la moglie e la figlia, fasciste fanatiche, gli sconvolgono l’esistenza. C’è anche un vecchio, il padre dell’impiegato, sordo e scemo, che non riconosce nessuno, né i nipoti né i parenti e che ruba la colazione ai bambini: e quella è un’altra Italia morta del tutto, una oscura età dimenticata:

Poi c’è chi paga per tutti: il figlio maggiore dell’impiegato Piscitello, un giovane laureato in chimica, ufficiale di complemento che quando torna dall’aver finito il servizio di prima nomina e trova il padre con la divisa nera non sa nascondergli la sua amarezza: quel figlio, semplice e giusto, cui il padre è legato da un profondo e tenero amore, dall’orgoglio d’avergli trasfuso la sua stessa coscienza, è la sola ragione di vivere che gli resta: gli altri figlioli crescono nel clima del littorio e ne assorbono irreparabilmente tutti i miasmi: la sua stessa paternità, nei confronti dei due ragazzi più piccoli e della figlia che amoreggia col baronetto, rampollo del podestà e gerarchetto a sua volta, non ha più alcun senso, non esiste addirittura. Gli resta dunque quel figlio maggiore, fidanzato alla figlia del farmacista, una brava e dolce ragazza di provincia. Ed è proprio lui che paga per tutti quanti: guerra d’Africa, guerra di Spagna, richiami alle armi e pericoli e sanguinose avventure senza passione, senza fiducia nell’avvenire: Piscitello diventa uomo quando un’altra guerra ha già riportato via suo figlio; e mai un anno di pace, mai una speranza. Nei brevi intervalli tra una guerra e l’altra la vita si ricompone, si raccoglie intorno ai suoi valori elementari, ma subito un nuovo uragano travolge affetti e speranze. Ora Piscitello non è più un fascista dell’ultima ora: è uno squadrista, una sciarpa littorio: la moglie, che lo tradisce con un gerarca di paese, gli ha procurato quella bella promozione, per avere il premio di duemila lire, per comprarsi un paio di scarpe. E non manca proprio nulla: c’è il barone che esporta armi in Spagna dentro cassette con la scritta « Arance »; c’è il figlio del barone imboscato che fa domanda di partire volontario e non parte mai; ci sono i contadini che vanno a fare la guerra per le quaranta lire al giorno, sospinti dalla fame, dalla disperazione del latifondo; c’è una famiglia nata tra una guerra e l’altra, quella del figlio dell’impiegato, che non ha un momento di tregua; e ci sono le Piazze piene di follia, di gente che applaude i discorsi di Mussolini, fino alla fine, fino all’ultima catastrofe. I ruderi della vecchia democrazia continuano a bisbigliare nel retrobottega della farmacia, nessuno ha il coraggio di lottare, di esporsi, di ribellarsi: nessuno di coloro che pure sanno, che hanno chiara coscienza del baratro aperto per il nostro Paese, osa scendere in piazza. E quando, si ode la Voce di Mussolini che annuncia la dichiarazione di guerra all’Inghilterra ed alla Francia ed il farmacista esce tra la folla cantando la Marsigliese e viene arrestato, la scena non persuade nessuno, appare piuttosto come un momento di debolezza dell’autore del film. Nessun farmacista è uscito sulle piazze a cantare la Marsigliese quel giorno; nessun antifascista del tipo di questi che nel film recitano la loro parte, a avuto quel quarantottesco coraggio.

Il dramma va avanti incalzante e spietato fino alle ultime conseguenze: i figli più piccoli di Piscitello che erano alla Farnesina a Roma, tornati all’isola semidistrutta dalle fortezze volanti per celebrarvi il 23 marzo, la disfatta in Africa, l’invasione alleata, l’occupazione militare tedesca e la morte del figlio giunto in licenza dalla Russia proprio quel giorno, già presso la sua casa, colpito dalla raffica d’un mitra nazista. E non è finita: il cadavere dell’ucciso, gigantesco, alto sulle teste abbassate dei parenti in gramaglie appare come un giudice muto: ma Brancati ha altro da dire: egli non ha finito: incalza il nostro dolore, il nostro orrore, la nostra viltà fino all’ultimo nascondiglio, strappa il velo all’ultimo alibi: Brancati non sa forse d’aver compiuto un’opera implacabile e tremenda: dopo i funerali, viene l’epurazione: l’epurazione di Piscitello, impiegato al comune, buttato sul lastrico perché squadrista e manganellatore: l’epuratore è proprio il barone già podestà ed ora sindaco, profittatore e commerciante d’armi, Poi si vedono i due figli minori dell’epurato che vendono per duemila lire la sua divisa da squadrista agli americani e questi si rivolgono a lui, a Piscitello, per sapere se la divisa valga più o meno del prezzo pagato. L’uomo disfatto da un dolore trova la forza di rispondere «a me è costata tanto di più». Siamo alla fine. Non abbiamo parlato d’una scena che precede di poco il finale e che forse è la più importante di tutte: ad un certo punto l’impiegato lascia la salma del figlio e si affaccia al circolo ove si trovano riuniti gli antifascisti ed i fascisti pentiti a brindare alla libertà ed alla liberazione e rinfaccia loro la viltà sua e di tutti, la viltà d’un popolo intero. Era forse questa la scena che doveva concludere il film, se si voleva dare ad esso un pur tenue valore d’umanità. Perché dopo quella scena, fino alla parola fine, non vi è nulla di sopportabile; c’è persino la spia dell’Ovra che passa al servizio dei nuovi padroni e continua ad esser temuta ed adulata. No; noi non riusciamo ad immaginare che cosa accadrà quando il pubblico italiano vedrà questo film: quando tutti «vedranno» la loro viltà senza fondo e quando le speranze di tutti appariranno come miserabili inganni. Quale giudizio conclusivo daremo dell’opera? Non è un film fascista, non è un film antifascista: non diremo che è anti-italiano per non cadere in un luogo comune: diremo piuttosto che si tratta d’un’opera esistenzialista: ecco, d’un’opera basata sull’angoscia e che non lascia nessun insegnamento, nessun segno nella coscienza, ma soltanto la bocca amara, il più triste fra tutti i disgusti: il disgusto di se stessi.

Diremo anche che il film traccia dei limiti severi all’opera d’uno scrittore, un bravo scrittore come Brancati: quel che egli credeva fosse soltanto satira o ironia piacevole, gradita nei salotti della buona società, diviene, tramutato in fotogrammi, una vicenda spaventosa, che significa ciò? Che il valore del libro era proprio in quel che di esso « non si vede » e quindi « non si capisce »? Ma lo scrittore ha « scritto » questo che il cinematografo ha rivelato? O si è servito di tutto questo per altri scopi, suoi personali mettiamo, per una sua gioia di scrivere in questo o quel modo? La realtà, in questo caso, il realismo diremo, avrebbe giocato un gran tiro birbone ad uno dei nostri scrittori meglio dotati e non pertanto meno lontano degli altri dai compiti e dagli impegni di una letteratura nazionale e sociale che il nostro Paese ancora non ha.

Felice Chilanti

Roma, 17 Agosto 1948

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