
Roma, agosto 1951.
Dov’io mi trovi in questo momento è cosa difficile a dirsi: propriamente, si tratta di un’anticamera, o meglio, di una mezza anticamera, perché una sua buona metà è già stata smontata; e questa semianticamera sarebbe quella di casa Soriano, Napoli, se non si trattasse invece di un « ambiente » costruito al Centro Sperimentale Cinematografico, Roma. Chi poi mi è di fronte, è Titina De Filipbo; ma più certamente ancora è Filumena Marturano, sequenza x del tempo primo.
Un momento: la parola « tempo », per Titina (o Filumena che sia) non ha significato; in questa breve conversazione, — che qualcuno potrebbe considerare intervista, e non lo è, — mi si va rivelando nella celebre attrice una « permanenza » spirituale che la colloca fuori dei singoli momenti della scena o della vita. Credo che sia un ingrato destino: vivere questa o quella realtà, vivere questa o quella finzione, oggi come ieri, con l’animo pronto a riviverla domani. Questa è permanenza vera, o, se volete, verità permanente, che, presa vita, sovrasta chi questa vita le ha conferita. Andiamo scoprendo che, fuori di questo scenario, la recita degli uomini è ancora più falsa, perché finge di essere vera. Qui almeno, Filumena Marturano vivendo vive se stessa, consapevolmente. Invece, fuori… Lasciamo andare. Voi tutti sapete che recitate, falsamente, credendo di vivere, una o più parti, in casa o fuori di casa, con altri o sinanche da soli.
Titina è invece tranquilla. Piangerà tra poco, dinanzi all’obiettivo, sinceramente; come sinceramente piange sulla scena ogni sera, se ogni sera deve risuscitare in se stessa il dramma risolto di Filumena Marturano. Ora, metro per metro, già si vanno montando le scene del film e, a lavoro finito, è un gran correre in produzione; ci corrono, con le due sole gambe di Eduardo De Filippo, l’autore, lo sceneggiatore, il regista, il primo attore, che in lui si assommano; ci corrono operatore, produttori e tecnici, ansiosi tutti per la sentenza, inappellabile, che lo schermo dà, di volta in volta, alla minuziosa fatica di ognuno. Titina, no. Titina anzi a questo punto si dilegua, e questo credo che sia un fenomeno unico, per una attrice di teatro che per la prima volta s’impegna a fondo, in un film a sua volta impegnativo.
Titina non ha curiosità, neanche di se stessa; non vuole vedersi perché sa che, vedendosi, si studierebbe e sarebbe forse tentata a porsi un controllo che falserebbe la spontaneità di se stessa. Se stessa, chi? Titina o Filumena? Io non saprei ben decidere; ma mi sembra giusto fissar l’attenzione su questo punto: non volersi controllare, per essere quanto più vera, non già come persona, ma come personaggio. Mi sembra che in tal modo la sincerità dell’attrice si riveli perfetta.
Qui l’irreale vive quanto il reale, e l’essere e il parere giungono a quel punto di fusione che solo merita il nome di realtà. Fuori di qui sarà un’altra cosa; ma in questa mezza anticamera, tra luci false e scheletri di pareti e gente truccata che passa, mi sembra infine che sia pieno e vitale il valore di una verità umana: sincerità di passione, al di là di ogni elemento esteriore, genuino o posticcio che sia. « Semplicità, » — soggiunge Titina. Ma forse non ripensa quale complessità drammatica l’abbia portata a questa felice conclusione.
Ha i lineamenti duri, ma non lo sguardo; ed è vigile in lei una fissità che argina il sentimento, sino a che questo non prorompe con irruenza primordiale, grezza, e nulla gli tiene più testa. Ecco: io credo sia infine qui l’intima sostanza spirituale da cui prende vita Filumena non
meno che Titina: la sofferenza ed il silenzio; ambedue tenaci, e colmi ambedue di una bontà connaturale, sino al sopravvento, — comunque esso avvenga, — del vero e del giusto.
Titina è dunque tranquilla. Finché, sinceramente e semplicemente, saprà essere quello che è, Titina sarà Filumena, e questo film avrà per motore il suo cuore.
Enzo Loreti