Venezia vista da me

Biennale di Venezia 1948

Ho sempre creduto — e i cartelloni pubblicitari non hanno fatto che rafforzare questa mia convinzione — che Venezia avesse nella Mostra del Cinema la sua maggiore manifestazione, importante com’è per Milano la Fiera Campionaria e Piedigrotta per Napoli. Ho creduto anche che i divi, i registi, gli uomini che mettono soldi nel cinematografo, circolassero per le cali veneziane e la gente li segnasse a dito e per loro si organizzassero luminarie e gentili trovatori indigeni scrivessero canzoni appropriate agli ospiti.

Domenica sera, in Piazza. S. Marco, ho dovuto accantonare un’illusione di più. Non soltanto i veneziani sono indifferenti ai personaggi del cinema — e di questo sono loro grato — ma candidamente ignorano che al Lido si sta svolgendo una specie di battaglia della celluloide, un incontro di ombre parlanti che valgono milioni, un carnevale di fantasmi in bianco-nero e a colori che; in un secondo tempo, dentro scatole di latta, verranno smistati a far pazzie sui sudari dei cinema di tutto il mondo.

I veneziani, abituati ad avere ospiti in casa, non si accorgono di questi spettri, né del policrono mondo che li circonda. Se non ci fossero da qualche giorno le sedie d’un grande caffè di Piazza San Marco intestate a coloro che fanno il mestiere del cinematografo, i veneziani sarebbero in pieno diritto di ignorare quello che sta succedendo al Lido. La trovata di scrivere i nomi di attori e registi sulla spalliera delle poltroncine, diciamo la verità, è buona, ma ha i suoi inconvenienti. Per esempio, quello di far credere tutti i posti prenotati dai signori Pilotto, Luchino Visconti. Michele Morgan, comunque dell’Universalia. I camerieri, perciò, hanno un’idea personalissima del cinematografo, quando rimangono liberi i tavoli e, per educazione, non la esprimono ad alta voce.

Dicevo, poco fa, che nessun veneziano, salvo le solite eccezioni, si accorge della manifestazione internazionale d’arte cinematografica. Ma della tombola in Piazza San Marco, sì, se n’è accorto e ha fatto ressa ed anche s’è divertito. C’era mezza città a veder estrarre i numeri e la banda cogli ottoni: lucidi lucidi, a forza di marcette e musiche adatte alla occasione, teneva in piedi le speranze di tutti i possessori di cartelle. Sembrava; e c’era da commuoversi, di vedere una grandissima famiglia in salotto, intenta al giuoco più innocente che si conosca. A Venezia, poi. la gente è un po’ tutta di casa, ché non c’è confine di strade e di piazze, ma una costruzione sta dentro l’altra e il dirimpettaio, se vuole, può prendere a schiaffi, senza muoversi dal davanzale, il vicino curioso che s’è permesso scrutargli in camera da letto, durante il cambiamento d’abito della moglie.

Era naturale l’appuntamento cittadino per una bella tombola alla buona, una rivincita su tutti i giochi maledettamente complicati che sono di moda al Lido. I numeri trasmessi con l’altoparlante nessuno riusciva a capirli e si prestavano a varie interpretazioni, finché non venivano affissi sulla tabella quadrata. La gente segnava il passaggio della fortuna con una crocetta. Mai visti in azione tanti lapis tutti in una volta. I vecchi, padroni assoluti dell’arte di segnare i numeri, tenevano le cartelle bene in vista, adornando di minuti disegni allegorici la casella del numero estratto. I più valenti, fra l’ammirazione dei vicini, abbozzavano quadretti completi della. «via crucis », oppure scene del viaggio di Marco -Polo. Sicché, a! termine della tombola in piazza, tutti, almeno su un piano artistico-culturale, avevano vinto qualcosa. Le cartelle meglio istoriate, ricche di fregi e di figurine piene di grazia, vennero distribuite, gratis, ai tanti svizzeri di passaggio.

i gatti

Gli svizzeri sono quegli individui che scendono in Italia a torme, bianchi di porcellana, e che tornano in patria d’un bel rosso gamberaceo che fa venir voglia, ai parrucchieri di laggiù, di sbarbificarli col coltello da pesce.

Venezia è superpopolata di gatti. Se un giorno dovessero fare una statistica sul numero di questi felini esistenti sul suolo nazionale, Venezia occuperebbe il primo posto. Ai gatti si addice la quiete dei campi e delle calli, la mancanza dei mezzi stradali motorizzati e soprattutto la facile viabilità dei tetti e delle terrazze. Di cosa vivono i felini domiciliati a Venezia, lo sanno solo Iddio e quelle donnette in nero, coi guanti a mezze dita, che la mattina presto e la sera vanno in processione per le stradette, disturbando la misteriosa « borida » ai gatti di nessuno. Ma forse i mici veneziani non: soffrono la fame. Sono appiattiti di natura, come le sogliole nel mondo dei pesci. Questa specialissima razza, che chiameremo del « gatto piatto », dopo secoli di permanenza a Venezia, a forza di passeggiare per le stradette e i vicoli stretti stretti, s’è assottigliata, affusolata, adattandosi alle esigenze della particolare urbanistica della città che li ospita.

Se miagolano — e lo fanno con molta discrezione, proprio se sono presi per il collo —non alzano molto il tono e i miagolio diventa un lamento sottilissimo che si perde lungo i muri, si annega nel primo. canale che incontra. Sono gatti compribissimi morbidi: miagolano in dialetto veneziano.

Goldoni

Goldoni divenne il commediografo che tutti conosciamo, soprattutto perché nacque nella città più scenografica del mondo. Con questo, intendiamoci, non voglio dire che se fosse nato, per esempio, a Palermo o in un altro centro della Sicilia, avrebbe fatto fortuna, con l’esportazione degli agrumi. Verga e Pirandello, tanto per citare i più vicini a noi, sarebbero pronti a testimoniare che non ho inteso fare ironie e sottintesi. Per Goldoni, il fatto d’aver visto la luce e d’essere cresciuto a Venezia, ecco, gli ha facilitato la carriera. Mi dispiace dover sbrigare così in poche righe Carlo Goldoni, specialmente ora che so esistere una magnifica opera omnia del commediografo — 40 volumi — curata con affetto per ben trenta anni dal sig. Ortolani e dal suo fedelissimo proto, Marzari. Le mie — mi scusino i veneziani — non sono che rapidissime note di cronaca e parlando anche così poco di papà Goldoni, rubo già un po’ dello spazio riservato in precedenza alle celebrità giorno, alle fronti incoronate dal lauro nel Palazzo. del Cinema. La cerimonia sembra sia stata strettamente confidenziale e celebrata al buio. Magnifico esempio di prudenza e modestia dei nostri « cinematografari » 1948.

Dicevamo, qualche riga più su, che Venezia, da qualunque
parte si guardi, è scenografia pura. Si ha l’impressione, sbucando da una celletta in un campo, d’aver varcato la porticina d’un palcoscenico. E la gente, a osservarla bene, specialmente se s’intrattiene alle bancarelle dei mercatini, o sosta alla brezza, o s’addensa su un ponte per veder passare la gondola con quelli della serenata dentro, ha l’aria d’essere in recita e s’atteggia graziosamente, nessuno dà sulla voce all’altro, sicché, ad averne voglia, senza fatica, ci sarebbe da seguire il dialogo.

Goldoni, invece di abbandonarsi al dolce cicalare come i suoi cittadini, preferì ascoltarli, disciplinò un poco te battute, limò le espressioni non eccessivamente castigate di qualche personaggio e i vaghi confini della Commedia dell’Arte si dissolsero nelle quadrate basi del Teatro veneziano, che vive ancor oggi, malgrado non siano stati trovati ancora i venti milioni per salvare il bel « Goldoni » e restituirlo al suo gran pubblico.

Venezia, dunque, città di teatro per eccellenza. Il cinema, un po’ tardi, ha cercato di scoprirla e di farla sua, ma non c’è riuscito che in minima parte. Il cinematografo è invenzione e questa città è già stata tutta mirabilmente inventata. La « camera » ha fatto quel che ha potuto, indugiando qua e là, inquadrando di sotto e di sopra, ma ci siamo accorti dopo che Alinari e altri fotografi d’arte, ci avevano preceduto .Venezia, sullo schermo, è ancora da vedere. Hanno finito di distruggerla, più d’un bombardamento, i registi e gli scenografi americani, i tanti Fornaretti, Dogi, congiure e « Piombi » cinematografici. Sen-za far parola, s’intende, dei documentaristi nostrani.

giornale di bordo

Questi ‘sono brani del giornale di bordo tenuto dalle comparse vestite da antichi romani, le quali prestano servizio sulla birene ancorata davanti al Lido.

« Oggi fa un freddo che non si addice alle polpe nude. Dobbiamo avere l’aspetto marziale almeno all’arrivo dei vaporetti, ma proprio non ce la sentiamo con questa temperatura. Alle 21, un branco di svizzere piuttosto in là col tempo, ha tentato di prendere la birene all’abbordaggio, ma ci siamo difesi a colpi di tripode. Siamo sul chi vive, perché temiamo un nuovo tentativo d’invasione. Che vita, però! ».

« A mezzanotte di ieri abbiamo tirato su un uomo. Credevamo che si trattasse d’un suicida, ma ci siamo sbagliati. Lo individuo ci ha parlato a lungo di un’aquila a due teste, Forse vaneggiava. Ha avuto parole amare per i critici in generale e di uno in particolare, bruno, gagliardo, che lo ha fatto tanto soffrire. Quando abbiamo capito con precisione cosa voleva da noi, l’abbiamo nuovamente gettato in mare ».

« Nessuno ci considera molto. Dev’essere il natante che ci ospita. La birene, sotto il neon, ha tutta l’aria d’essere un pezzo da museo. Ci sono momenti in cui anche noi ci sentiamo pieni di paglia. Fa sempre freddo. A poppa si sta un po’ meglio, come ha detto ieri un giovanotto guardando una ragazza con un seno così. A proposito, pensavamo, noi romani, di ricevere almeno una visita della concittadina Anna Magnani, ma non s’è vista e siamo delusi. Senza il suo pittoresco linguaggio trasteverino è più acuta la nostalgia. Si dice, qui a bordo, che un intraprendente giovanotto, padrone d’una gran fabbrica di pettini, si sia ucciso per lei, ma forse sono leggende, come quella che i film di pupazzi cecoslovacchi sono stati freneticamente applauditi al « San Marco ». Che tristezza, però! ».

Piero Pierotti

Venezia, 5 settembre 1948

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