
Finalmente un film italiano, bello! Lode a Roberto Rossellini, il regista della Nave bianca, perché ha saputo ridarci la gioia di commuoverci ancora per cose nostre. Perché è riuscito a raccontarci il dolore e l’orgoglio di una gente che non è morta tutta, nonostante i trattati di pace e i tifosi del “boogie-boogie”.
Non è solo la storia di Don Morosini, che il soggetto di Sergio Amidei fa rivivere nella caritatevole eroica figura di Don Pietro. È la storia di Roma, la storia di tre quarti d’Italia nel biennio più tragico della sua travagliata vita di nazione.
Ed è una storia di oscuri sacrifici e di sublimi eroismi, di cristiana rassegnazione e di virile coraggio, di calcolata viltà e di tragica debolezza, di piccole bassezze e di pavidi accomodamenti, di bestiale ferocia e di criminale sadismo, di odio e di disperazione, di sangue e di gloria.
Rossellini ha trovato l’espressione adeguata alla tragedia vissuta dal nostro popolo: si è valso della grigia fotografia di Arata a rendere l’incubo di un paese dominato dal coprifuoco e dalle S.S.; della musica del fratello Renzo, che lega senza soluzione di continuità le pause di l’angoscia e le grida di dolore, gli spari di fucile e silenzi della morte.
Ha fatto servire la sua tecnica ricercata all’idea che gli premeva di dentro: la panoramica dall’alto dell’arresto di Francesco, l’uccisione di Pina, l’angosciosa corsa del prete per le scale alla ricerca delle bombe, la fuga degli arrestati dai camions, la confessione tedesca del dubbio sulla superiorità della razza germanica, il felice passaggio degli urli del seviziato alla musica del salotto tedesco, le potenti veristiche sequenze della tortura, intanto sono i pezzi più riusciti in quanto la grammatica cinematografica che Rossellini possiede è stata usata a esprimere interne moralità.
L’interpretazione è stata all’altezza della regia e della vicenda: Fabrizi e la Magnani hanno dato ai loro forti personaggi il rilievo di una sofferta umanità che l’esuberanza romanesca colorisce senza retorica. Pagliero, nella parte del martire, ha portato alla regia da cui proviene un raro equilibrio di recitazione. Harry Feist ha dato al maggiore tedesco la sadica e fredda odiosità di quella razza.
Nel finale, alla fucilazione di Don Pietro, le mani dell’ufficiale italiano che deve comandare il plotone di esecuzione tremano; i repubblichini del plotone sbagliano la mira. Don Pietro sarà ucciso dall’ufficiale tedesco con una rivoltellata alla nuca. Storia e poesia di Rossellini?
Un pensiero viene, che è una speranza. Quel sogno di gloria che Rossellini cantò in termini di carità nella Nave bianca, quella lotta di liberazione che Rossellini racconta qui come un martirologio di tutta la nazione, non sono forse la stessa immagine di quest’Italia, che ha tanto sofferto, sempre, da non doversi più vergognare di niente?
Sarebbe bene che questo film andasse presto fuori d’Italia: potrebbe servirci, al tavolo della pace, più di qualsiasi memoriale.
Firenze, Novembre 1945