Amore

Il tempo aveva già un po’ diminuito il valore dell’atto unico di Cocteau La voce umana, anche se in America è stato tradotto nel luglio scorso da Partesan Review, ma forse per contraccolpo al successo dell’opera «minima» di Menotti Il telefono (se non anche per la risonanza che ha subito destato lo sketch cinematografico di Rossellini anche prima che fosse stato presentato al pubblico). Il padre di questi atti unici, se v’interessa, è Faisons un réve, commedia a tre di Sacha Guitry, che l’autore boulevardier recitava, nel 1916, per i soldati delle retrovie: un intero atto era sostenuto dallo stesso Guitry, con un telefono per partenaire.

A Rossellini e ad Anna Magnani è parso di estrarre La voce umana dalla congérie dei monologhi e pezzi di bravura che col passare degli anni diventano anonimi: la Magnani interpretando, Rossellini vedendo e registrando, quasi automaticamente, senza il lavoro che l’Olivier o lo Asquith hanno saputo fare sui capolavori di Shakespeare, o sulle pièces di Shaw (Marcantonio e Cleopatra, che è di Pascal, eccettuata). L’attrice, indissolubilmente legata al realismo della scena e delle strade romane, ha costruito il personaggio della donna abbandonata e vieppiù innamorata con tutto lo slancio del suo temperamento e con la passione del suo volto (anche se il cinema non l’ha servita come Dreyer aveva già fatto per la
Falconetti).

Ma non bisogna dimenticarsi che Anna, nel film, è un «tipo», e lo diciamo tutto a suo onore: come lo è Stroheim, come Jean Gabin, come lo era Polidor e come Charlot, che di tutti i tipi creati dal cinema resta il più alto, Mettete in bocca a questi personaggi una battuta che non appartiene al loro «tipo», e la sentirete fuori posto. Ora ripetete lo stesso esperimento con la Magnani: fatele dire, come in Voce umana, quelle battute borghesi, più o meno gravi, che alludono al «processo» o al «dentista». Esse, nella violenza, per sovrappiù, dei gros plans sonori, porteranno una sfasatura, un tono falso che del resto avevano nella stessa pièce di Cocteau.

Che Rossellini abbia dedicato alla Magnani, quale «omaggio», questo skecth che appartiene completamente a lei (e a Cocteau) è molto gentile: sarebbe scortese, però, verso tutte le altre nostre distinte attrici, la Pagnani, la Morelli, la Ferrati, la Adani, ecc., se noi ritenessimo che queste non ne saprebbero dare una interpretazione altrettanto rispettabile.

Nel Miracolo la presenza di Rossellini torna in luce, e con una tecnica creativa che propone nuove soluzioni: non più neorealismo, cosiddetto: ma sogno. (Vedremo come questo assunto, indubbiamente rilevante, potrà ancor meglio chiarirsi nella Macchina ammazzacattivi Forse è la lettura di Fior di santità di Valle-Inclán che ha ispirato Fellini per il racconto su cui è basato il secondo sketch di Amore. (Cosi ha sostenuto vivacemente anche la stampa sudamericana). Adattamento italiano d’un’ racconto spagnolo, dunque, che a loro volta Tullio Pinelli e lo stesso regista hanno ridotto per lo schermo. L’atmosfera della vicenda, infatti, è indicativa al riguardo: basta ricordare la maternità di Mari-Gaíla, l’eroina di Parole divine dello stesso Valle-Inclán, inseguita dalla folla urlante fino alla chiesa, e rifugiatasi nel campanile. Anziché verso Gesú (come in Fior di santità) Fellini fa rivolgere la sua pazza pecoraia verso San Giuseppe, che essa crede di ravvisare in un vagabondo. La storia procede di pari passo. Al latte il soggettista -sostituisce il vino, ma l’«abuso» del vagabondo si verifica in entrambi i casi; e il popolo si prende beffa della «madre divina», sedicente, anche gli scemi del villaggio la cacciano via. E qui è veramente toccante, raggiunto con la semplicità e disinvoltura di Rossellini nel dire le cose più difficili, l’episodio del vecchio che, di fronte alla chiesa, le getta via robe e scatole di latta, che ruzzolano sulle scalette del tormenta to paesino tirrenico.

Film discontinuo, come Germania anno zero, che pure registra sì splendidi brani, con una prima parte che continua sullo stile di Voce umana. Parla soltanto Anna, e il vagabondo la guarda a lungo inespressivamente: anche lui, a suo modo, è un «telefono». Poi la descrizione del villaggio, gli episodi della chiesa e dei barattoli, la fuga della donna fino al campanile per dare alla luce il bambino. Valle-Inclán fa terminare il racconto, allo stesso luogo, con un gran scampanio, per annunciare l’evento.

Roma, novembre 1948

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