Restano per le strade molti sogni di Camerini

Anna Magnani, Massimo Girotti ed il piccolo Giorgio Nimmo, Molti sogni per le strade di Mario Camerini (1948)

Chissà se Mario Camerini, durante la preparazione di Molti sogni per le strade, aveva in mente di farne un film « neorealistico »? Sembrerebbe di sì a giudicare dall’inizio documentario (a parer mio la più bella trovata di tutta la sceneggiatura) che però, dato il successivo svolgimento del racconto, perde totalmente di significato e rimane un capriccio, un puro compiacimento, uno « svolazzo » come direbbe Hemingway.

Ma è certo che la nuova opera cameriniana, se tra qualche anno sarà ancora ricordata, lo dovrà alla sequenza centrale del battesimo e del banchetto e specialmente alla indovinatissima macchietta del ricettatore di automobili, sequenza che si riallaccia al miglior Camerini, quello che in altri tempi ha fatto parlare di « stile Capra». Resta tuttavia da stabilire quanto poi questa sequenza sia coerente con il « tono » generale del film che, senz’altro, aspira ad essere semplice, poco caricato, addirittura dimesso.

Camerini evidentemente non cerca (e del resto non ha mai cercato) effetti narrativi: il suo racconto procede piano, senza slanci o colpi d’ala. Deve odiare certi scrittori come Conrad o addirittura come Don Passos (che invece costituiscono la delizia di Orson Welles e in Italia, probabilmente, di De Santis). Il suo ideale narrativo forse è il classico humour di Twain, scrittore che egli ammira perché « sa scrivere ». Naturalmente, da buon latino, non riesce a raggiungere la lievità dell’umorista anglosassone e si ferma a mezza strada. Ma le intenzioni sono lodevolissime.

Molti sogni per le strade è un film narrato alla buona, ma esattamente e con precisione. Persino le più sciatte trovate di sceneggiatura (il caffè equivoco presentato attraverso il bigliardo e popolato di incredibili e surreali prostitute) vengono risolte da una regia pudica e contemporaneamente autoritaria. Peccato che Camerini non abbia curato di più la recitazione: la scena in cui Paolo confessa alla moglie il suo furto rasenta il grottesco.

Durante la Mostra di Venezia avevo definito, senza averlo visto, il film Amore un interminabile e ingiustificato provino. Fino ad oggi sono stato molto soddisfatto di questa battuta che giudicavo particolarmente felice. Purtroppo, oggi, dopo aver visto Amore, mi accorgo di non aver detto nulla di eccezionalmente spiritoso. Il film di Rossellini è effettivamente un lungo provino, un saggio di recitazione, l’autentico equivalente di quella che in teatro si suole chiamare « serata d’onore ».

La regìa gravita intorno alle possibilità interpretative di Anna Magnani, pronta a rinunziare a qualsiasi effetto che non sia direttamente in funzione della recitazione della protagonista.

Peccato, perché nell’impostazione non erano mancati spunti felicissimi. Primo tra tutti la innegabile trovata (non so se di Rossellini o di Cocteau) di far vivere il casamento intorno all’appartamento della donna protagonista de La voce umana. Ma, in effetti, in sede dj realizzazione, questa intuizione innegabile è stata appena accennata, affidando tutto il giuoco emotivo al dialogo originale. Cosicché i rari momenti di autentica emozione sono dovuti, anziché alla trasposizione cinematografica di Rossellini, al sapiente testo di Jean Cocteau che rivela una carica emotiva stupefacente a distanza di tanti anni.

Mario Landi

Roma, novembre 1948

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