L’opera che rivelò compiutamente Sem Benelli, nacque una sera di inverno all’Argentina di Roma. Si dice che, dopo il trionfo, il poeta si recasse, quella sera, al caffè Aragno. Le sale erano gremite di spettatori che avevano ascoltato il nuovo poema drammatico: si levarono, tutti, in piedi, ad applaudire. E quando Benelli entrò nella famosa « terza saletta », che accoglieva il fiore dell’intellettualità italiana — poeti, romanzieri, giornalisti — la testimonianza di una fraternità commovente si fece più intensa con grandi feste al Poeta. Ed uno dei presenti a rendergli omaggio, recitò la ballata della « Maschera di Bruto ».
Da quella sera La cena delle beffe va per il mondo: ha saturato di sé le folle dei teatri di ogni paese, recando, di terra in terra, il segno della sua italianità. Coloro che lo videro, non potranno aver dimenticato quel manifesto disegnato da Galileo Chini, in cui dominava ia figura di Giannetto Malespini, raccolto in un mantello rosso, celato il volto in un cappuccio rosso. Rosso: sangue: un sanguigno poema di sangue.
Per giudicare, oggi, il valore dell’opera e la sua originalità bisogna riportarsi al momento quando si levò, per la prima volta, il sipario sul dramma: e ricondursi al tempo che precede quell’attimo: non si ritrova, valicando gli anni, un segno che possa raccordarsi. sul teatro, alla « Cena delle beffe ». Benelli disse una parola nuova e inconfondibile. Come d’Annunzio con la « Figlia di Jorio », come Pirandello con « Sei personaggi in cerca di autore ». Poi tutti ripeteranno « Stanotte me ne vo con la Ginevra », o dormiranno « Settecent’anni », o giocheranno sul sogno e sulla realtà; e non si accorgeranno che quelle parole, quella immagine di vita, dalla visione o dal campo di un poeta sono calate nella prassi quotidiana, a farsi cibo della nostra mensa. E ci parrà di averle inventate noi. È questo il destino delle opere che raggiungono la popolarità.
A parte questo segno di novità, la « Cena delle beffe » ha un valore nostro, nazionale, latino, poiché nasce dallo spirito di un poeta toscano che sente la sua terra. È un poema di razza. Firenze medicea, dalla novellistica del Quattrocento, balza sulla scena con le sue aspre passioni, con la sua godereccia sanità, con il contrasto delle sue contese, rubilante di armi, fastosa per banchetti, accesa di peccato, virile nell’amore e nella morte. È, soprattutto Firenze che aguzza ed usa i ferri della sua intelligenza: ché Giannetto è intelligenza toscana che si addenta contro la forza bruta: è Jago contro Otello: è il personaggio tipico di Benelli che si genera in « Tignola », si raffina in « Lorenzino », si completa nel rivale di Neri Chiaramantesi, e si batterà, a difendersi dalla violenza sopraffattrice, con le armi della sua sottigliezza. Jago vincerà Otello, Giannetto vincerà Neri: l’uno e l’altro feroci giostratori della parola: disperati l’uno e l’altro, per il vortice che aprono, con il loro gioco infernale: urlanti sull’abisso che sì spalanca sui loro passi, quando si accorgono del limite estremo, cui li ha condotti la loro spietata intelligenza. E anche questo è latino, toscano, machiavellico.
Ora la «Cena» passa allo schermo. Questa trasposizione è una idea felice; specialmente perché si attua in Italia. Certa storia, storia nostra, noi l’abbiamo nel sangue, sicché a trasferirla in imagini d’arte è per noi cosa idonea e naturale. Il regista che è chiamato a realizzarla si trova alla presenza di un mondo che ha già respirato fra le mura delle nostre vecchie città, nelle nostre ville centenarie, nelle tele delle nostre gallerie, nella polvere delle strade, nelle pagine dei nostri classici. I nostri attori pare che a cingere la corazza e il giustacuore siano i più adatti del mondo: il trucco li riconduce, d’un tratto, ad essere uomini di lancia e di spada: mai, essi, sì sono visti muovere con maggiore scioltezza come nelle maglie e nei giachi: c’è da pensare che l’abito del nostro tempo li impacci, e quando tornano ad indossare quello dei nostri padri ritrovano la loro umanità e la loro natura. Sicché il film storico o in costume, per idoneità di mezzi, può essere il film italiano: quando esso fiorisce sopra una struttura già liricamente compiuta, e riproduce persone e fatti che hanno già l’impronta di un’arte raggiunta lo sforzo si fa più facile. E l’opera può toccare le vette. Questo è il pronostico che si può fare alla « Cena delle beffe ».
Cesare Giulio Viola
Febbraio 1942