Più che un’analisi critica rigorosa de Il Porto delle Nebbie di Marcel Carné, credo possa essere interessante qualche riflessione di carattere generale volta a risolvere certi problemi che la visione di questo bel film rimette sul tappeto con carattere di attualità e, direi, addirittura di urgenza. Tanto più che l’alta qualità di questo singolare e suggestivo racconto cinematografico è stata generalmente riconosciuta dalla critica, anche quotidiana, ed apprezzata dal pubblico, anche più distratto.
Accanto al pacato e motivato giudizio dei migliori non mancano tuttavia gli osanma e i crucifige degli scalmanati, mossi da tendenze e convinzioni non propriamente critiche, ma piuttosto morali, sociali e magari anche politiche; quelle preoccupazioni che, con un termine della teoria dell’arte, entrato largamente nel linguaggio giornalistico e comune, si sogliono dire extraestetiche. Basti ricordare che, ad un film come Il Porto delle Nebbie e a quella tendenza cinematografica che, grosso modo, può dirsi il realismo cinematografico francese, si è voluto imputare nientedimeno che la decadenza della Francia o addirittura la disfatta militare di quel paese. Naturalmente: nonostante Pangloss e il tutto va per il meglio, la faute è sempre di Voltaire (1).
Credo che’sia giusto: ripetere ai sordi che la moralità dell’arte sta nel fatto di essere arte, e che non esiste arte immorale. E mi affretterò ad aggiungere che questo vuol dire anche che non esiste arte al di là della problematicità della vita e del mondo, arte essendo appunto l’espressione di un mondo, E che tutto ciò non esclude affatto l’importanza delle opere nel divenire sociale, anzi che proprio implica il foscoliano rifare la gente. Senza di che non si ha l’arte, ma il nulla. Anzi appunto: meno che niente.
Con molta maggior verità e con più equo giudizio si può dire dei film del neo-realismo francese che essi sono stati un grido d’allarme: e che la cruda rappresentazione di fatti di violenza e di sangue, che in essi sì è costantemente celebrata, è stato un tentativo, assai nobile, non solo e non tanto di descrivere condizioni umane particolarissime, ma anche di ricercarne le cause e le responsabilità. Cause e responsabilità sociali individuate benissimo, e che avrebbero dovuto interessare e preoccupare non solo la cosiddetta opinione, ma anche e soprattutto i governanti. I quali, evidentemente, hanno invece creduto più seri e attraenti gli scherzi villerecci, poniamo di un Pagnol, e consigliabile e saggia la politica del consueto struzzo — col risultato che tutti sanno.
Recentemente André Gide, interrogato circa la responsabilità degli intellettuali francesi nella crisi del suo paese, ha raccontato un apologo assai gustoso. Una nave s’era incagliata perché sovraccarica: per alleggerirla e salvare il salvabile non c’era che da sacrificare alcuni viaggiatori. Furono così entusiasticamente buttati in acqua omicidi, ladri, sfruttatori e simili. Invano. Soltanto quando fu la volta di un magro ed ascetico missionario, il barcone parve bastantemente alleviato e sì potè muovere. E tutti gridarono che era colpa del missionario se la nave s’era incagliata.
E un apologo che conviene ricordare ogni volta che si sia tentati a giudicare con leggerezza dei fatti dell’arte.
Volendo sistemare nella storia del film Il Porto delle Nebbie bisogna rifarsi a Renoir, che con La chienne iniziò, nel 1931, quello stile cinematografico che oggi chiamiamo correntemente francese. Alle difficoltà che gli opponevano i produttori, Renoir sosteneva che qualche anno
dopo essi avrebbero richiesto solo film di quel genere. E tuttavia non bisogna credere ad uno schematismo programmatico dell’autore: né di stile, né di contenuto. Tanto è vero che proprio La chienne ha inizio con una battuta polemica: un teatro di pupi. Un burattino annunzìa: « Questo film vuol dimostrare…» Interviene un altro burattino, scaccia il precedente e dichiara: « Questo film vuol dimostrare… » Infine un terzo ed ultimo burattino conclude: « Questo è un film, e, come tale, non vuole dimostrare assolutamente nulla… ».
E allora? Allora vuol dire che esprimere il proprio mondo morale per un artista non è come dimostrare un teorema. E se Carné è più duro e spietato, Renoir, pur con la sua dichiarata indifferenza tematica, non è meno moralmente inflessibile.
Mi ricordo di una signora che avevo visto lagrimare abbondantemente al caramelloso Margherita Gauthier della Garbo, che assistette con occhio asciutto a La bête humaine. Vuol dire che l’emozione che possono dare questi film non è di carattere sensibile o sentimentale, e che lo stimolo che provocano è nella sfera della fantasia. Essi non partono dalle insoddisfazioni del pubblico per solleticarne il senso di evasione, ma, con lucida freddezza, ricostringono nella problematica dell’esistenza. Senza divertimento, ma con accresciuta umanità.
Nella fornace dell’esistenza entrano pochi — ha detto un grande poeta tedesco — gli altri stanno fuori e si scaldano.
Quelli che si tirano fuori disertano così i propri compiti più umani: e tra i più potenti complici delle diserzioni e delle evasioni, sta in prima linea il film divertente.
Divertenti sono i prodotti confezionati dai mestieranti senza scrupolo sui residui delle opere d’arte. E così si capisce che tra Dupil e Lupin c’è un abisso: non solo di valore artistico, ma anche di valore morale. Nonostante che i veramente straordinari racconti di Poe non siano adatti per i ragazzi e per i nervi sensibili come le avventure del Ladro Gentiluomo. Non diversamente da così Bubu de Montparnasse degenera in rapporti giornalistici romanzati tipo Un mois chez les filles o Minuit Place Pigalle. Da una parte impegno e simpatia umana, dall’altra compiacimento morboso e vuoto divertimento.
Ma, si domandano alcuni, quanto della Francia vera esiste in questi film? Sono proprio reali quei tipi così abnormi, quei casi così eccezionali, quelle personalità così schiantate?
Siamo ad un altro equivoco sul quale è bene intendersi: ad un’opera d’arte non sì chiede né verità né verosimiglianza; o, per dirla in altro modo, non si chiede che verità e verosimiglianza artistica. Termini che non sopportano rapporti e confronti con nulla di esterno all’opera. Ne Il Porto delle nebbie c’è creazione fantastica, cioè poesia; nelle comico-sentimentali, gabellate per deliziose, c’è solo falsificazione. E se qualcuno volesse ancora insistere a chiedere dov’è la Francia, dove meglio sì rispecchia risponderemo — per analogia — quello che sentivo dire giorni or sono; che c’è più Italia ne I topi grigi, di Emilio Ghione e Kally Sambucini, che non negli altri film italiani dello stesso periodo. E nessuno mi crederà, spero, tanto ingenuo da considerare vere o verosimili le mirabolanti avventure di Zà la Mort, della sua fida compagna Za la Vie e del allora ragazzo, Martinelli.
Giacché siamo all’Italia, veniamo ad un altro punto che, rispetto al film realistico, è di grandissima importanza. Vi siete mai chiesti perché uno scrittore francese può liberamente usare l’argot più stretto, il gergo professionale più specifico, i modi di espressione più transeunti e contingenti riuscendo a farsi capire da tutto il mondo? Mentre da noi chi tenta fare altrettanto riesce comprensibile solo ad una cerchia strettissima di lettori? Le ragioni sono evidentemente storiche: la vecchia unità della Francia ne ha unificato il linguaggio; mentre da noi solo da poco si può sperare, in seguito ad alcune vere e proprie trasmigrazioni di lavoratori (per esempio nella bonifica Pontina), nel sorgere di un linguaggio popolare veramente italiano. Cosicché il vero grande trinomio della poesia moderna italiana non è: Carducci, Pascoli, D’Annunzio, ma Porta, Belli, Di Giacomo.
La poesia italiana è quasi tutta aulica e, da De Lollis, sappiamo che cosa siano stati i suoi conati realistici. Appena spunta un cannoniere ci si accorge che egli spara a salve: Cannonier, che fai là così inerte?
I tuoi bronzi, le polveri accendi….
(Prati)
E il Carducci, quando voleva dire pane al pane?
Ho dei valori pubblici, un’amante paolotta, e un giornale
del centro che mi paragona a Dante…
Nel cinema le cose non vanno diversamente. Il nostro maggior film, Cabiria, con tutti i suoi apporti alla creazione di una autonomia della lingua cinematografica, con la sua innegabile funzione di primo piano nella scoperta dei mezzi espressivi del cinema, rimane nella corrente solenne e togata della letteratura che lo ha ispirato. Cosicché, almeno per questo aspetto, è stato giusto contrapporgli Sperduti nel buio.
Se davvero vogliamo abbandonare il polpettone storico, la rifrittura ottocentesca, la commediola degli equivoci dobbiamo tentare il film realistico. Confortati dal fatto che può sorreggerci una tradizione nostra — questa veramente tutta nostra e quasi soltanto nostra — quella delle arti figurative. E infatti: l’apparizione di un carrettino da gelataro di così stramba fantasiosità in una piazza di Ferrara (nel film Ossessione) non ha precedenti araldici che risalgano magari fino ad Ercole de’ Roberti?
Umberto Barbaro
Un articolo veramente molto interessante e approfondito sul neorealismo francese e su Il porto delle nebbie. Ne sono rimasto molto colpito, complimenti!
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Grazie per il commento. Secondo gli storici del cinema è la prima volta che si parla di neo-realismo.
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