Roma, luglio 1943
È alta 1,60, sa innumerevoli cose comprese le lingue, ed è venuta alla luce attraverso il doppiaggio, dal teatro. Venuta alla luce? Sì: il cinema ha fatto di Anna Magnani una vera luce dell’intelligenza e dell’arte, un’attrice ch’è, a mio modo di sentire, la più vivida e la più versatile dei nostri schermi. Gli americani ci avevano dato, nel tipo « mondana », soltanto qualche varietà saporosa: una Mae West, per esempio; ma noi italiani abbiamo nell’attrice Magnani il caleidoscopio inesauribile di tutte le mondane possibili ed immaginabili, in ogni categoria, grado, sfumatura.
Grande e tormentata e corrusca famiglia delle donne irregolari, tu hai in questa attrice dai mille volti la più spiritosa rivincita. Attraverso di lei, aggressiva o insinuante, avida o sentimentale, allegra o tragica, si sente sempre quale profondo bisogno l’umanità abbia di te per la faticosa gioia di vivere. Ogni volta la grande irregolare (un’ottima donna di casa nella vita, moglie del regista Alessandrini) ci fa sentire deliziosamente l’amaro sale dell’irregolarità.
Non c’è una irregolare magnanesca che non sia un carattere, sempre nuovo, sempre incalzante ed incisivo in una maniera diversa. Caricaturale un tantino per il puro gusto della scena ma disegnato ogni volta con una verità, una profondità, uno scatto, da sbalordire. Ogni magnanesca irregolare vi ricorda la bonomia piccante, la corposità e la passione avventata che hanno le caricature del Daumier. Nelle altre attrici cinematografiche c’è la posa e lo studio: qui c’è la’ vita.
La Magnani è un’inesauribile creatrice, che, come tutti i veri artisti, non chiede che un colpo di pollice, un tocco, per scolpire un carattere. Ricordo, per esempio; una sua sciantosa che cantava con un gesto ritmico, macchinale e dispettoso ad un tempo, e vi diceva infinitamente più con quella mossaccia, di quel che avrebbe potuto dirvi in una voluminosa autobiografia. E non era, certo, il regista che gliela aveva suggerita: era una piccola trovata sua, leggera e stupenda.
In una quindicina di film in cui ella è sinora comparsa, non ci sono due Magnani che si somiglino lontanamente, che ricadano nella stessa piega personale e involontaria. Ogni volta la figura è balzata, assolutamente « ex novo », da un’intelligenza intuitiva, osservatrice acuta della commedia umana per il lato, il più fosforescente forse, della femminile irregolarità. Come siamo lontani dalla vamp stereotipata americana, dalle sciantose e gigolette dei filmistici tabarini, dalla professionale semitragica, dalla retorica insomma; del bassofondo e dell’alto bordo! Non esito a dire che il cinema italiano ha nella Magnani un’artista straordinariamente semplice ed inventiva, che potrebbero invidiargli i più evoluti cinema del mondo, e l’americano prima d’ogni altro.
Questa scintillante caratteristica è, nel suo genere, una gemma.
In ogni film, appena lei compaia, si respira. È l’aria aperta improvvisa in uno stanzone che cominciava a saper di chiuso. Non è mai la seduzione nei suoi manierismi infiniti: ma è la carne soda e proterva, da cui urge un carattere, una volontà con cui, prima o poi, c’è un conto da regolare. L’irregolarità costa sempre, e quasi mai rende quello che costa. Voi sentite che con la Magnani, bella o brutta, elegante o affagottata, brutale o ridicola, entra nell’azione un piccolo conto aperto. C’è qualcuno che, prima o poi, in un modo o nell’altro, pagherà. È la commedia o il dramma, ma è anche, e soprattutto, la vita.
Posso vuotare il sacco fino in fondo? La mia simpatia, tutta artistica ahimè, per il gran mondo delle irregolari, s’è di molto accresciuta da che vedo corruscare sugli schermi i caratteri magnaniani. Come riconosco il « gaietto sciame femminil », preso e invelenito dal Piacere, dal boia senza pace! Non più una semplice simpatia letteraria per le tormentose perdute, e neppure un’orrida vaghezza impressionistica alla Toulouse-Lautrec. No: sento del grottesco e del saporoso in questo perduto mondo femminile evocato dalla Magnani, poca o niente felicità, poco o niente piacere, ma un acre, oserei dire desertico, odor di vita. Una buona zaffata di disordine, quanto fa bene in certi casi! Com’è vero che il male è talvolta utile, se non necessario, allo stesso bene! Lasciatemi dire con più precisione la cosa in due versetti di Gioacchino Belli:
Io lo so, Peppe mio, tutte so’ sciape
le moje appresso a un po’ de puttanella
La galleria filmistica delle irregolari magnaniane è, insomma, soprattutto una cosa gustosa e semplicemente vera, che vi avvia, senza cinismo e con molta piacevolezza, a tutto comprendere e, quindi, a tutto perdonare.
Un poeta antico, Menandro, nella. sua « commedia nuova », s’era invaghito del tipo della irregolare buona-diavola, che finisce sempre col fare assai più bene che male al suo uomo, aiutandolo con disinteresse e generosità. No: non ci siamo più. Troppo buono, il nostro Menandro; ma c’è, indubbiamente, qualcosa di fine e di menandresco anche nelle figure grezze di irregolari, che la Magnani ci presenta: nella commedia nuovissima dello schermo: qualcosa che si potrebbe chiamare una simpatia ilare e spregiudicata e mai immorale, tutto sommato.
E mi guardo bene dal pensare che Anna Magnani sia una di quelle artiste che non possono mai uscir dal loro genere senza fare un po’ la figura di pesci fuor d’acqua. Tutt’altro! Più scantinerà; più evaderà giudiziosamente dal genere che l’ha rivelata, più apparirà un’artista matura, perfetta e sorprendente.
Può dircene qualcosa l’erbivendola che abbiam vista testè in Campo de’ fiori; ma, prima di parlarvene, vorrei mi permetteste di precisare le mie idee su quel film. Debbo confessarvi ch’io adoro il romano ma ho una sottile antipatia per il romanesco, con cui anche in quel film si tenta di confonderlo. Io vivo insomma nella Roma che parla all’anima, ma in quella dialettale, popolaresca, epicurea, mi sento sempre un tantino come un pesce fuor d’acqua. E quel film, non esclusa anzi prevalente la figura del Fabrizi troppo dialettale e paesana, ci dava dentro forse un po’ troppo in cotesta Roma volgare. Peppino De Filippo, pareva, in quanto non romanesco, fresco e riposante come un’oasi.
L’erbivendola romanesca non aveva dunque alcunché che mi predisponesse in suo favore: ma fin dai primi istanti la Magnani m’ha colpito come il vero capolavoro, la vera « artista » del film, assai più geniale e viva che il Fabrizi. La Magnani solo aveva capito che cosa « popolo » veramente significhi, a Roma come a Venezia o in altre città che hanno più serbato del vecchio costume. La vera ragazza popolana, in quelle città, non è quasi mai volgarità: è, al contrario, anche e soprattutto nelle faccende del cuore, stile severo, pieno di sprezzature e disdegni, di scatto e d’altera magnificenza. Pare un paradosso: ma, nel costume standardizzantesi d’oggi, non ci sono più che certe giovani popolane che abbiano ancora questo individuale senso dello stile e della maestà.
Come l’ha indovinato la nostra Menandresca, e con che verità l’ha fatto vivo, parlante, imperioso e scultoreo nella sua desolazione! Ella qui è alla grande arte, alla grande commedia in cui, nell’umile quotidiano, la farsa tiene per mano la tragedia soltanto a pie’ pari il borghese dramma.
Ecco un carattere non certo di prostituta ma di umile e fiera benefattrice dell’amato, che vorrei avesse veduto il nostro poeta Menandro. La sua « commedia nuova » ha oggi una barba assai lunga: ma oso presumere che il cinema non sarebbe affatto dispiaciuto ad un greco, e che Menandro avrebbe particolarmente amati certi tipi idealizzati e stilizzati, serbatisi, attraverso il popolo d’oggi, nella commedia umana.
Non rammento altra immagine di Menandro, che quella intraveduta come sua al Museo Laterano. Un buon diavolo seduto e barbuto, accanto alla musa della commedia, se non erro. A voi, amatissimo lettore, ricordare il nome di quella musa. In ogni modo, è un personaggino dolce e sedentario quello che passa per Menandro, e che potrebbe senza vostro fastidio alcuno sedervi vicino nel cinema e guardar con voi la Magnani di Campo de’ fiori.
Le cose vecchissime sono talvolta così vicine a quelle che passano per nuove fiammanti! Chi vi dice che la Grecia così poco tenera per le ragazze, non avesse già, nei suoi mercati, tipi d’erbivendole innamorate e burrascose e fiere a quel modo: in una maniera cioè, mutatis mutandis, umanamente analoga a quella che la Magnani scolpiva nell’erbivendola di Campo de’ fiori?
La faccia pallida e intenta e involontariamente regale della Magnani in Campo de’ fiori! Ma è una perfetta maschera classica, risuscitata nel grigiume dello schermo. Niente come il nostro effimero più volgare passa ogni giorno vicino alle idee eterne ed alle maschere senza mutamento.
Eugenio Giovannetti